Che cos’è lo “straining” ?
Si definisce straining, nella prassi oramai consolidata, una forma attenuata di “mobbing”, nella quale non si rinviene il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni non necessariamente associate ad un intento persecutorio, ma intenzionale che, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, legittimano la richiesta risarcitoria fondata sull’art. 2087 cod. civ.
L’art. 2087 cod. civ., infatti, sancisce l’obbligo dell’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure “che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
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Qual’è la differenza tra straining e mobbing?
Sul piano pratico, lo straining si differenzia dal mobbing per il modo in cui è compiuta l’azione vessatoria.
Si parla di mobbing se l’azione di molestia si caratterizza per il perpetrarsi di una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, se si accerta un danno alla salute e, infine, se il danno alla salute può essere correlato all’azione persecutoria svolta sul posto di lavoro.
Quindi, secondo la consolidata giurisprudenza, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo volutamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (cfr. Cass., n. 3785/2009).
Invece, nello straining non si richiede il carattere della continuità delle azioni vessatorie.
Quindi, la nozione di straining, avendo natura medico-legale, non assume autonoma rilevanza ai fini giuridici, ma è utilizzata per identificare comportamenti che si pongano in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr.: Cass. 29 marzo 2018 n. 7844).
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, lo straining è una forma attenuata di mobbing che è configurabile quando vi siano comportamenti che vengono definiti “stressogeni”, volutamente posti in essere nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie o se le stesse di fatto sono limitate nel numero, ma sono comunque idonee a concretizzare effetti dannosi per il lavoratore (cfr. Cass. n. 15159/2019).
La giurisprudenza di merito ha altresì evidenziato come lo straining, a differenza del mobbing, si contraddistingue per la caratteristica aggressività del comportamento posto in essere dal datore di lavoro.
Tale aggressività, ad esempio, si può rilevare mediante la repentinità o la natura eclatante dell’azione o può realizzarsi nelle modalità con le quali viene attuato ad esempio il demansionamento del lavoratore, ovvero nel concomitante verificarsi di vari atti che sono diretti ad isolare, anche dal punto di vista umano, il lavoratore.
Con la recente sentenza 29101/2023 la Corte di Cassazione ha statuito espressamente che “al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing o straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)”.
La reiterazione, l’intensità del dolo, prosegue, “sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno”.
Il risarcimento del danno: elementi e onere della prova
Dunque, anche se lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing “perché priva della continuità delle vessazioni”, è sempre riconducibile a una violazione dell’art. 2087 cod. civ., “sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta”.
Quindi, sia il mobbing che lo straining provocano al dipendente problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, incidenti sulla sua qualità della vita.
Entrambe le fattispecie, attesa la mancanza di disposizioni normative specifiche in materia, sono tutelabili in virtù di quanto disposto dall’art. 2087 cod. civ., che deve essere considerata una norma di chiusura del sistema antinfortunistico.
Tale disposizione codicistica, viene infatti considerata suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro.
L’art. 2087 cod. civ. rappresenta quindi un valido strumento sanzionatorio idoneo a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro idonee a ledere la personalità e la dignità del lavoratore.
Il lavoratore che subisce una condotta mobbizzante, comportamenti vessatori, lesivi e persecutori, sia pure nella forma meno intensa dello straining, ha dunque diritto al risarcimento del danno biologico.
Grava tuttavia sul lavoratore l’onere della prova.
Sarà quindi a carico del lavoratore provare:
- i fatti nei quali si è manifestata la condotta datoriale;
- le regole di condotta che assume essere state violate;
- il nesso causale tra il comportamento tenuto dal datore di lavoro (o dai colleghi) ed il pregiudizio alla propria salute e all’integrità psicofisica che lamenta di aver sofferto (cfr. Cass. n. 13693/2015).